Avv. Fulvio
Romanelli: Patrocinante in Cassazione e presso le Magistrature Superiori -
Curatore
Fallimentare – Custode Giudiziario presso la Sezione esecuzioni immobiliare
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La
professione forense da Roma antica ad oggi. Dacché l’uomo è uscito
dalla sua condizione tribale e ha posto le condizioni per il sorgere della
civiltà organizzata ha avvertito il bisogno, al fine della risoluzione
delle controversie, del difensore, che col tempo è divenuto un
tecnico del diritto. E’ sorta così la figura
dell’avvocato. Tale figura si è materializzata
ancor prima che Roma divenisse punto di riferimento per il diritto nel mondo
civile. Tuttavia, per dare una prima pregnante definizione della funzione
dell’avvocato, giova riportarsi a quella romana. E dunque
“advocatus iuris et legum consultus, ad cavendum, ad agendum, vel ad
respondendum peritus”… Si può dire che in Roma,
nell’ambito di azione così individuato, sia nata la professione
forense. L’uomo ha sempre avvertito la
necessità del difensore, tra l’altro non essendo capace - nelle
controversie che, sia in sede civile che penale, costituiscono
l’aspetto patologico della vita sociale organizzata e sfociano nel
processo - a svolgere in esso l’attività richiesta al fine di
promuovere l’esercizio della giurisdizione. La società organizzata si rendeva
conto del fatto che, nell’esercizio della sua funzione, il giudice,
senza l’aiuto della parte, non sarebbe riuscito o sarebbe riuscito
malamente a rendere giustizia. Ma la parte, nove volte su dieci, non avrebbe
potuto aiutarlo se non fosse stata a sua volta aiutata. Riteneva dunque indispensabile un aiuto, in
primo luogo, nel settore tecnico, per il compimento degli atti processuali, i
quali richiedessero una certa preparazione; in secondo luogo nel settore
giuridico di merito, per valutare la conformità dei fatti alle
fattispecie legali e così per formare quei giudizi giuridici, che sono
necessari all’invenzione e allo svolgimento delle sue ragioni. Tanto alla consulenza quanto alla difesa
veniva riconosciuta, nel corso dei secoli, una importanza fondamentale per il
buon fine dell’ordinamento giuridico, ossia per il raggiungimento della
civiltà. Si giungeva così, specie nel mondo
romano, nell’ambito sociale del diritto, ad un pieno riconoscimento,
fino alla esaltazione, della figura dell’avvocato. Si era ai tempi in
cui l’avvocatura, quella esaltata da Cicerone e
Tacito, si poneva ormai nella società come professione liberale,
avendo perduto da secoli quel suo carattere originario di disinteressata e
aristocratica funzione di assistenza processuale. L’avvocato romano era
però soprattutto l’oratore. E l’eloquenza forense era
messa sul medesimo piano dell’eloquenza politica, come un mezzo, al
pari di questa, efficacissimo per la difesa degli interessi dei cittadini,
messo in opera non da tecnici, né tanto meno da mestieranti, ma da
uomini che personali doti di intelligenza e d’ambizione spingevano alla
carriera delle magistrature. L’opera dell’avvocato era
compensata, se meritava, con un divulgarsi della sua fama, premessa
necessaria all’ascesa politica, ma non col denaro. Un formale divieto a riceverlo è
riferito dalla tradizione alla legge Cincia (204 a.c.), “qua cavetur
antiquitus ne quis ad causam orandam pecuniam donumque accipiat”
(Tacito, Annales, 11, 5, 3). Augusto fece confermare tale divieto, stabilendo
per i trasgressori la pena del quadruplo. Detto tra di noi, non era troppo difficile
eludere il divieto per quella parte che riguardava i doni, sempre che al
cliente paresse doveroso esprimere la propria gratitudine per una causa ben
riuscita, dando, in forma privata, un qualche riconoscimento
all’avvocato; e sempre che a quest’ultimo non paresse sconveniente
accettarlo (anzi è di quei tempi il detto: ”ianuam
advocati pulsanda est pede”). Quello che veramente era vietato e
giudicato disonorevole dall’opinione comune era che si patteggiasse un
prezzo per la difesa e che se ne esigesse, a cosa fatta, il pagamento. Questa, la condizione dell’avvocatura
in età romana. Quale sorte avesse nell’alto
Medioevo la professione di avvocato è difficile a dirsi.
Certo essa era poco lieta. Nell’Italia longobarda si assiste
all’istaurarsi di un tipo di procedimento che si fonda sulla presenza
fisica e sulla partecipazione diretta delle parti in causa. Il Rinascimento
giuridico riporta in onore l’avvocatura. Le basi romane e canoniche del nuovo
processo, la sua impronta dotta e dottrinale, la sua stessa
complessità e duttilità giustificano il sempre più
frequente ricorso a difensori, esperti nel diritto. Essi tornano ad essere, come lo erano stati
nell’antichità romana, quella grande categoria di personaggi di
grande statura sociale e politica, capaci di incidere profondamente nel
tessuto della società della quale fanno parte, finendo per
condizionarla e nella quale sono e si conservano protagonisti. Si raccolgono in collegi, si danno statuti,
stabiliscono dei rigidi canoni di ammissione alla categoria, indispensabili
per l’esercizio della professione. Di detti canoni abbiamo notizia
nell’Ordo iudiciarius del bolognese Tancredi, secondo il quale da tale
ordine sono esclusi “i sordi, i muti, i pazzi, i ciechi, i minori di
diciassette anni, le donne, gli schiavi, gli infermi” ed altri
ancora. Nel diritto canonico, che, in relazione
alle epoche storiche, regola gran parte della giurisdizione, sono esclusi in
più gli eretici, i monaci e i chierici. Sono stabilite per gli avvocati rigide
regole di comportamento, spesso ai confini tra diritto e morale. E’ rigidamente stabilita la regola di
non accettare donativi dalla parte avversa, di non pattuire col cliente la
quota lite, di non scendere nelle difese ad ingiurie e villanie, di non
prolungare inutilmente le arringhe e le discussioni. A Napoli, la città che, insieme con
Venezia, si poteva dire il maggior centro dell’eloquenza forense, nel
1709 si limita all’avvocato la facoltà di parlare a un
giorno o due al massimo, invece dei quattordici o più durante i quali
alcuni parlavano. Al di sopra di tutto, si mantiene nei
secoli (salvo brevi periodi di oscurantismo) sempre alta la
funzione dell’avvocato come espressione del più libero esercizio
della sua attività defensionale e la incompatibilità assoluta
tra l’esercizio della professione forense e il lavoro subordinato. L’organizzazione libera della
funzione dell’avvocato ha sempre (o quasi) nel tempo risposto
alla sua profonda natura. L’avvocato è stato sempre uomo
di parte, quindi libero, dotato di grande dignità e credibilità,
come singolo e come appartenente alla categoria forense. Nei secoli egli, come singolo e come
appartenente alla classe, si è posto nei confronti della
collettività come indispensabile elemento di mediazione
obbligata, di interpretazione necessaria dei valori che qualificano le norme
di un dato momento storico. Ciò al fine di poterle
applicare e soprattutto far applicare in modo conforme alle esigenze del
momento avvertite dalla collettività. L’avvocato si è posto nel
tempo come personalità soggetta soltanto alla legge,
stimolo efficace ad indirizzare, nel senso voluto dalla morale e dal diritto,
l’azione dei giudici e condizionarne ad un tempo le iniziative. Il tutto nell’ambito di una
parzialità, connaturale all’avvocatura: idonea però
a creare l’equilibrio del giudicante. Massima espressione
quest’ultima della capacità del difensore, che si
è potuta esaltare a mezzo del contraddittorio. Il quale ultimo ha
garantito, di fronte all’opinione pubblica, la libertà e
l’indipendenza del giudizio. Nei secoli, così, per merito
dell’avvocato come singolo e dell’avvocatura come classe, si
è evitato che restasse frustrata la domanda sempre crescente di una
più pregnante giustizia, sia nel campo degli interessi individuali che
al fine di fare ottenere il riconoscimento e la garanzia di quelli sociali. ********* Oggi la situazione è cambiata. E’ stato detto autorevolmente, e qui
lo ribadisco, che l’avvocatura oggi esiste solo in astratto, laddove
invece la magistratura si esprime in concreto. E’ stato rilevato, in un momento
– che non è solo un momento, ma che rischia di perpetuarsi
– di crisi dell’apparato giudiziario, non più in
condizione di dare risposte reali e tempestive alla domanda di giustizia che
si leva prorompente dall’intero Paese, che occorrerebbe
un’avvocatura più attiva, più vigile, più
presente. La crisi nella quale affogano la giustizia
civile, amministrativa, penale, tributaria costituisce una delle più
gravi questioni istituzionali, idonea a compromettere in misura rilevante il
processo di omologazione dell’Italia rispetto ai partners
europei. Nel mentre si chiede da ogni parte una
immediata inversione di tendenza, che recuperi ad efficienza e
modernità i disegni di riforma dell’apparato giudiziario, ma
anche degli stessi codici; nel mentre le scelte in questi anni compiute si
sono manifestate tutte fallimentari, a causa della mancanza di
un’architettura di sistema, che ponga in raccordo modelli
ordinamentali, impianti strutturali e regole processuali; nel mentre quindi
il mondo della giustizia subisce una vera e propria caduta verticale di
immagine, nel mentre si verifica quanto innanzi, l’avvocatura - che
dovrebbe essere protagonista, come lo è stata in passato, per indicare
la via verso la rifondazione dello Stato di diritto, verso la rinnovazione
dalle fondamenta del sistema giudiziario - manca di qualsiasi potere reale. E’ dimenticata dai numerosi avvocati
parlamentari, intenti a difendere bene altri ed eterogenei interessi che essi
rappresentano. E’ caratterizzata da pochezza
politica, non ha spessore, non ha uno strumento proprio che la rappresenti
fermamente e unitariamente nei momenti che contano. In tale condizione versa
l’avvocatura, mentre occorrerebbero decisioni drastiche da parte di un
corpo forense che facesse contare - come accade per la magistratura - la
propria voce, indirizzandola a far valere una concezione rinnovata delle
modalità di organizzazione degli uffici e del lavoro giudiziario: da
realizzarsi tale organizzazione anche attraverso la introduzione di norme che
prevedano, per esempio, il controllo periodico della produttività e
della professionalità dei magistrati. Occorrerebbe un’avvocatura che
propugnasse fermamente la rinuncia alla infausta logica dell’emergenza,
per ricostruire il senso di una concezione prospettica, nella quale
interventi anche parziali risultino collocati in un disegno che sia realmente
rinnovatore. La nostra legislazione non ha mai
considerato che, accanto all’ordine giudiziario, vi è
l’ordine forense, che ha pari interessi, pari incidenze, pari
dignità e pari responsabilità nel servizio della giustizia. E’ stato rilevato autorevolmente, ma
purtroppo finora inutilmente, che l’ingerenza della magistratura nella
notoriamente disastrata attività forense è diffusa in molte
leggi. Al contrario l’avvocatura non ne ha alcuna, che consenta di
inspiciere in alienum. Eppure la sua presenza, istituzionalizzata
nell’organizzazione dei servizi giudiziari nei vari distretti, sarebbe
estremamente utile. E servirebbe, attraverso la propria
mediazione, ad avvicinare il cittadino alla giustizia, risollevandolo
dallo abisso di sfiducia nel quale da gran tempo è caduto. Con la presenza, con l’intervento di
una avvocatura veramente organizzata e compatta nel perseguimento al fine, si
potrebbe così sospingere il Parlamento a dare leggi idonee a far
uscire il Paese dalla situazione di confusione, nel campo della
giustizia, nella quale esso versa; e che è determinata
dall’eccessivo numero di leggi – duecentocinquantamila - che,
spesso sovrapponendosi, contribuiscono ad incrementare il male ormai
endemico dell’incertezza del diritto. Si potrebbe sospingere il Parlamento a
cercare, trovandole, misure alternative allo sbocco, finora necessario, delle
liti nella già intasata giurisdizione. Si potrebbe quindi coltivare la ricerca di
modelli conciliativi e di filtri di accesso alla giurisdizione, incentivando
nel contempo la propensione verso il modello arbitrale. Si potrebbe in tal modo - e in altri da
ricercarsi, sempre con l’apporto determinante dell’ Avvocatura -
esprimere concetti nuovi e moderni sulla “azienda giustizia”,
dando più appropriato spazio alla magistratura togata, con il
liberarla da tante altre incombenze, che ne tarpano le capacità e ne
disperdono in rivoli minori le competenze. Si è detto e ripetuto che
l’insufficienza e la cattiva gestione dei ruoli organici dei magistrati
può trovare un temperamento, se l’avvocatura - coessenziale
anche costituzionalmente alla funzione giudiziaria - rivendica, accanto a
quello di protesta, il proprio ruolo di proposta concreta, per fare uscire la
giustizia dal tunnel nel quale essa è chiusa: e dal quale non pare
possa uscire in breve tempo, mettendosi al passo delle nazioni di pari
importanza, ed evitando così le continue rampogne della Corte Europea
per la endemica lunga durata dei processi. ********* Questa, in sintesi, la condizione
dell’avvocatura nel tempo e di quella italiana oggi. Ma se è vero quanto innanzi, non
è chi non veda come, allo stato attuale delle cose, occorra una
professione forense nuova, che riesca a darsi, singolarmente e
collettivamente, un adeguato volto culturale, un concreto impegno
morale; che riscopra il vero ruolo che è imposto all’avvocato
dalla funzione della difesa. Quest’ultima non deve più essere
intesa come esclusiva prestazione professionale liberistica, regolata
dalle leggi di mercato, ma deve assurgere a dignità di vero e
proprio ufficio, che, per l’evoluzione dei tempi e per lo stesso
dettato costituzionale, deve essere assolto pur sempre in un regime di
libertà e al di fuori di ogni pianificazione e di ogni appiattimento.
Non solo per proteggere la libertà civile in funzione dell’utile
individuale, ma anche per realizzare il fine primario della giusta
applicazione della legge. Questo tipo di nuovo modo di esercizio
della professione dovrà far sentire l’avvocato
costantemente coinvolto nel processo di trasformazione della
società di oggi, dal quale non dovrà farsi più
emarginare. Egli, l’avvocato, dovrà
irrobustire la carica di generosità, che, da sempre, è il segno
distintivo della vera nobiltà della professione. Dovrà
caratterizzarsi non come un sicario di lusso o come gestore della difesa del
torto, ma come servitore della verità, che è nei fatti e nelle
leggi. Dovrà sentirsi infatti interprete e coraggioso difensore della
Costituzione del suo Paese. Dovrà soprattutto guardare alla
libertà della professione non come ad un privilegio, ma come ad una
fonte di doveri e di responsabilità: onde la libertà stessa
appaia non strumento di conservazione di ciò che si ha, ma stimolo di
perenne dedizione di ciò che si è. A vantaggio di tutti. Solo così la libertà della
professione costituirà garanzia per ogni cittadino, che, con la
mediazione del difensore, assicurerà che migliore
giustizia sia data alla risoluzione del caso concreto. Colui che tra gli avvocati crede in
tali principi è sorretto da una grande fede: finché ci
sarà una società civile, finché la storia
dell’uomo sarà la storia della sua cultura, della sua civiltà,
gli uomini esigeranno, come bisogno irrinunciabile, un difensore
libero, ma anche un avvocato che eserciti la professione, operando nei gangli
fondamentali dai quali si articola la convivenza umana, come un fattore
propulsivo di solidarietà, di socialità, di umanità. |